Dewey: La scuola tradizionale e la rivoluzione copernicana dell'educazione

In questa bella pagina di Scuola e società (1899) Dewey tratteggia una prima critica della scuola tradizionale e della sua impostazione trasmissiva e massificante. La demistificazione del setting scolastico tradizionale, con i banchi e le cattedre, è ricorrente nella letteratura dell’attivismo pedagogico. 

Anni addietro io giravo per i negozi di suppellettili scolastiche in città in cerca di banchi e seggiole che fossero i più adatti da tutti i punti di vista — artistico, igienico ed educativo — ai bisogni dei fanciulli. Incontrammo molte difficoltà a trovare ciò di cui avevamo bisogno, sino a che un negoziante più intelligente degli altri usci in questa osservazione: “Temo che, non troviate quel che desiderate. Desiderate qualcosa con cui i ragazzi possano lavorare; questi sono fatti tutti per ascoltare”. Avete in queste parole la storia dell’educazione tradizionale. Come il biologo con un osso o due può ricostruire l’intero animale, così noi, se rievochiamo dinanzi alla nostra mente un’aula scolastica ordinaria, con le sue file di banchi disposti in ordine geometrico, addossati l’uno all’altro in modo da lasciare il minore spazio possibile al movimento degli alunni, banchi quasi tutti delle medesime dimensioni, con il poco spazio che basta a contenere libri, matite e carta, con l’aggiunta di un tavolo, di qualche seggiola e le pareti nude o adornate col minor numero possibile di quadri murali, possiamo ricostruire l’unica attività educativa che sia possibile svolgere in siffatto spazio. Tutto è fatto “per ascoltare” — poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente. L’attitudine ad ascoltare significa, comparativamente parlando, passività, assorbimento: ci sono quei certi materiali già pronti, che sono stati preparati dalle autorità scolastiche, dall’insegnante: l’alunno deve accoglierne quanto più può e nel più breve tempo possibile. L’officina, il laboratorio, i materiali, gli ordigni con cui il fanciullo può costruire, creare e attivamente indagare, e persino lo spazio indispensabile, di solito hanno fatto difetto. Le cose che hanno da fare con questi processi non hanno ancora un posto definitivamente riconosciuto nell’educazione. Esse sono quel che i gerarchi della scuola che scrivono articoli di fondo nei quotidiani denominano “fantasticherie” e “sciocchezze”. Una signora mi raccontava ieri che si era recata a visitare diverse scuole nella speranza di trovarne una in cui l’attività del ragazzo avesse preceduto l’istruzione impartita dal maestro, e dove i fanciulli avessero qualche motivo per chiedere l’istruzione. Visitò ventiquattro diverse scuole, mi disse, prima di trovare quella che faceva al caso suo. Posso aggiungere che il fatto non è accaduto in questa città. Un’altra cosa è suggerita da queste aule scolastiche, con i loro banchi allineati: tutto è disposto in modo da avere sotto mano il maggior numero possibile di ragazzi, da trattare con fanciulli en masse, come aggregato di unità; il che, di nuovo, implica ch’essi siano soggetti ad un trattamento passivo. Dal momento che i ragazzi agiscono, si individualizzano; essi cessano di essere una massa e diventano esseri nettamente distinti come li abbiamo conosciuti fuori di scuola, in casa, in famiglia, sul campo da giuoco, e nel vicinato. 
Nel medesimo modo si spiega l’uniformità di metodo e di programmi. Se tutto è fondato sull’”ascoltare”, ci deve essere uniformità di materiale e di metodo. L’orecchio, e il libro che riflette l’orecchio, costituisce il mezzo identico per tutti. Non c’è modo di adattarlo alle varie capacità e richieste. C’è una certa somma — una quantità fissa — di risultati e di abilità che tutti i fanciulli devono acquistare ugualmente in un tempo determinato. Per rispondere a questa esigenza è stato elaborato il programma dalla scuola elementare su su sino al collegio. Si suppone che ci sia solo quel tanto di date conoscenze che è bene apprendere e quel tanto di date abilità tecniche che è opportuno conseguire nel mondo. Si tratta di suddividere matematicamente questa materia in sei, dodici o sedici anni di vita scolastica. Diamo ogni anno ai ragazzi la porzione che loro spetta: col tempo essi si saranno impadroniti dell’insieme. Se avranno assolto il loro compito nell’ora o nel giorno o nella settimana o nell’anno prefissi, tutto si compirà nel modo più piano possibile, ad una condizione, che i ragazzi non dimentichino quel che hanno appreso prima. La conclusione di tutto questo è quanto racconta Matthew Arnold. Un’autorità scolastica in Francia gli assicurò con orgoglio che ad un’ora determinata, e precisamente alle undici, migliaia di fanciulli stavano studiando una data lezione di geografia. Ed in una delle nostre città occidentali questa boriosa millanteria fu ripetuta ai suoi visitatori dal provveditore agli studi. 
Posso avere un po’ esagerato per mettere maggiormente in risalto i punti tipici della vecchia educazione: la passività dell’atteggiamento, il meccanico inquadramento in massa dei ragazzi, l’uniformità dei programmi e del metodo. Io posso compendiare così il mio pensiero: il centro di gravità è fuori del fanciullo. Esso è nel maestro, nel testo scolastico, in quel che volete, e dove volete, eccetto che negli istinti e nell’attività immediata del ragazzo stesso. Da quel punto di vista non c’è molto da dire circa la vita del fanciullo. Molto si potrà dire intorno allo studio del fanciullo, ma la scuola non è il luogo dove egli viva. Ora, nella nostra educazione si sta verificando lo spostamento del centro di gravità. È un cambiamento, una rivoluzione, non diversa da quella provocata da Copernico, quando spostò il centro dell’astronomia dalla terra al sole. Nel nostro caso il fanciullo diventa il sole intorno al quale girano gli strumenti dell’educazione. Esso è il centro intorno al quale essi sono organizzati. 

J. Dewey, Scuola e società, in Il mio credo pedagogico. Antologia degli scritti sull’educazione, cit., pp. 59-63.


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