Don Lorenzo Milani

Lorenzo Milani nasce a Firenze nel 1923. Nonostante la tradizione culturale della sua famiglia, che annovera intellettuali e studiosi (il bisnonno materno era il noto filologo Domenico Comparetti), il giovane Lorenzo riesce a ottenere solo a fatica la licenza liceale, dopo la quale si rifiuta di frequentare l’università e prende lezioni private di pittura. Intanto matura la sua vocazione religiosa (anch’essa in contrasto con il clima che si respira in famiglia, che è di indifferenza alla religione), che lo porta a frequentare il seminario. 
Nel 1947 viene ordinato sacerdote e mandato come cappellano alla pieve di san Donato di Calenzano. Qui organizza una prima scuola popolare per i giovani operai e contadini della comunità, riuscendo a coinvolgere anche giovani comunisti. Una iniziativa sociale che non risulta gradita alla curia fiorentina, che nel 1954 lo “esilia” a Barbiana, un minuscolo borgo di montanari, dove gli viene affidata una parrocchia che si crede destinata a morire per lo spostamento degli abitanti verso la pianura. Di Barbiana invece don Milani farà uno dei luoghi chiave della sperimentazione educativa della seconda metà del Novecento italiano.
Nel 1958 esce Esperienze pastorali, un libro che aveva cominciato a scrivere a San Donato e che susciterà molte polemiche per le critiche rivolte all’alleanza tra la Chiesa cattolica ed partito democristiano (si giunge alla richiesta di ritiro dal commercio da parte del Sant’Uffizio). 
Nel 1965 compare un comunicato dei cappellani militari contro gli obiettori di coscienza, accusati di vigliaccheria. Don Milani decide di scrivere insieme ai ragazzi della Scuola di Barbiana una lettera di risposta, in seguito alla quale viene incriminato per apologia di reato. L’autodifesa, mandata ai giudici in forma scritta perché la malattia che lo condurrà alla morte gli impedisce di presentarsi di persona, verrà pubblicata con il titolo L’obbedienza non è più una virtù
Dalla scrittura comune con i ragazzi della sua scuola nasce anche la Lettera a una professoressa, un duro atto di accusa contro la scuola pubblica che diventerà uno dei testi chiave del movimento del ‘68. Il libro esce nel maggio del 1967, un mese prima della scomparsa di don Milani. 

La Scuola di Barbiana 

Al fondo della scelta di don Milani di farsi educatore c’è una fede che recupera con vigore il messaggio evangelico riguardo al primato dei poveri. Con una radicalità che sconcerterà, don Milani si accorge che essere sacerdote vuol dire stare senza riserve con i poveri, condividerne le condizioni di vita (e di estrema povertà era la sua sistemazione a Barbiana), le sofferenze e le lotte. 
Come Freire, don Milani percepisce che dietro la povertà c’è sempre una oppressione. Stare con i poveri vuol dire allora stare contro gli oppressori, che don Milani identifica nella borghesia. Il senso del suo impegno educativo è questo: offrire ai poveri gli strumenti per riscattarsi, per liberarsi dall’oppressione, per lottare contro i padroni. In un incontro con dei direttori didattici dichiara: “Cioè – ve lo devo dire – io baso la scuola sulla lotta di classe. Io non faccio altro dalla mattina alla sera che parlare di lotta di classe. E la scuola funziona perché io faccio soltanto questo discorso”. Una posizione così esplicita non poteva che scandalizzare il mondo cattolico, apparendo pericolosamente vicina al comunismo. 
Ma don Milani non fu comunista; la lotta di classe per lui era una conseguenza logica del Vangelo. Nella Scuola di Barbiana i ragazzi sono guidati non solo a prendere coscienza delle oppressioni locali, ma anche ad allargare lo sguardo fino a sentirsi coinvolti in tutte le lotte di liberazione che avvengono nel mondo, a solidarizzare con tutti gli sfruttati e gli oppressi. Solo in questo modo è possibile dar senso allo studio. 
Nella scuola pubblica, nota don Milani, si cerca di motivare gli studenti invitandoli a studiare per farsi strada nella vita. Questo vuol dire educare all’egoismo ed all’arrivismo. Manca una prospettiva più ampia, uno slancio ideale. Si avverte l’importanza, l’urgenza dello studio solo se si inserisce il proprio sforzo in uno sforzo più grande, che è quello per la liberazione comune. “I miei ragazzi – afferma – sono appassionati a studiare perché vogliono elevare se stessi per tutta la loro classe. Hanno davanti agli occhi tutto il mondo sofferente”. 
Il motto della scuola è I care, “mi interessa”, rovesciamento di quel “me ne frego” che era uno dei motti del fascismo. 
Quella di Barbiana è una scuola estremamente rigorosa. Le lezioni cominciano alle otto di mattina e proseguono fino alle sette e trenta di sera, con una pausa per il pranzo. Si fa lezione anche la domenica e durante le altre festività. Non esiste la ricreazione, non esistono attività ludiche. Un impegno così ampio consente di affrontare tutti gli argomenti della scuola pubblica (presso la quale i ragazzi di Barbiana sostengono gli esami come privatisti), aggiungendo ciò che è necessario per una formazione politica e per la conquista dello sguardo più ampio di cui s’è detto: le lingue straniere, la lettura del giornale, il lavoro manuale. 
È una scuola che non vuole formare intellettuali, ma lavoratori consapevoli dei propri diritti, sindacalisti, persone impegnate nella politica e nel sociale. Come maestro don Milani è dotato di un carisma straordinario, che non è estraneo alla riuscita dell’esperimento di Barbiana. Il suo stile educativo esige una costante tensione ideale, un impegno senza cedimenti, una dedizione assoluta. Pur essendo ospitata in una canonica, quella di Barbiana è una scuola laica, non confessionale, pluralistica. 
Il centro del lavoro educativo è l’educazione linguistica. I poveri sono oppressi perché conoscono meno parole dei ricchi. Don Milani non solo dedica una attenzione particolare alle parole, di cui approfondisce la storia, l’evoluzione, la ricchezza di significati, i termini corrispondenti nelle altre lingue, ma ricorre alla scrittura collettiva per educare ad una espressività essenziale, priva di ogni retorica, centrata sugli argomenti. Il procedimento è complesso: si propone il tema, e i singoli ragazzi scrivono le loro idee; i testi vengono letti e si annotano su dei foglietti le idee comuni e quelle più interessanti; quindi si dispongono tutti i foglietti su un tavolo, si mettono in ordine e si crea uno schema logico del testo; infine si passa alla stesura del testo, che prima di diventare definitivo dovrà subire una ripulitura, per eliminare tutto ciò che non è essenziale. 

Cambiare la scuola 

Occasione per la stesura della Lettera a una professoressa è la bocciatura di alcuni ragazzi della Scuola, che nel libro parlano con una sola voce e col nome fittizio di Gianni, un quattordicenne bocciato alla licenza media. La critica alla scuola pubblica si può sintetizzare in una frase: essa è “tagliata su misura dei ricchi”. È fatta per Pierino, il figlio del dottore, e non per Gianni. La cultura scolastica è una cultura borghese, estranea ai figli dei contadini, che sono destinati inevitabilmente ad esserne espulsi. Basta guardare i programmi: tutto è slegato dall’esperienza e fine a sé stesso. Ogni figlio di contadini sa arrampicarsi sugli alberi, ma a scuola gli si chiede di giocare a pallacanestro. Non lo sa fare, ed allora lo si boccia anche in educazione fisica. Parla la lingua del popolo, viva e concreta, ma gli si chiede di rinunciarvi per imparare l’italiano di Vincenzo Monti. La professoressa non gli insegna come scrivere, ma intanto valuta il suo stile al compiti di italiano. E nell’insegnamento della storia ci si ferma alla prima guerra mondiale, per il timore di far politica. 
Il risultato è che la scuola dell’obbligo perde per strada centinaia di migliaia di studenti, che appartengono quasi tutti al ceto proletario. All’università arrivano quasi solo i figli della borghesia. E ciò accade in una scuola che, come noterà anche Illich, è per lo più pagata dai poveri (“Il curioso è che lo stipendio per buttarci fuori ve lo paghiamo noi, gli esclusi”). 
Per cambiare la scuola occorrono tre cose. In primo luogo, non bocciare. Se uno studente dà risultati insufficienti, bisognerà moltiplicare gli sforzi, lottare fino in fondo per non perderlo (“Noi per i casi estremi si adopra anche la frusta”). Poi, adottare il tempo pieno, fare scuola al mattino e doposcuola al pomeriggio, per consentire anche ai poveri di avere le ripetizioni. Infine, dare ai ragazzi un fine. Per appassionarsi allo studio occorre un perché che sia valido per credenti ed atei. Il fine ultimo è quello di dedicarsi al prossimo non retoricamente, né astrattamente, ma attraverso le scelte e l’impegno politico per un mondo più giusto: “Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”. Il fine immediato è quello di imparare a comunicare, studiando la propria lingua e quelle straniere. 
Di questi tre punti nelle discussioni su don Milani, che ancora oggi sono tutt’altro che infrequenti sui giornali e nel dibattito politico, si evidenzia esclusivamente il primo. Don Milani sarebbe colui che ha chiesto una scuola in cui non si boccia. Ma questa richiesta è indissolubilmente legata agli altri due punti, ed in particolare al terzo. L’esigenza posta da don Milani e dai ragazzi della Scuola di Barbiana è soprattutto quella di una scuola che faccia cultura autentica, ossia significativa. “La cultura vera, quella che ancora non ha posseduto nessun uomo – si legge nella Lettera – è fatta di due cose: appartenere alla massa e possedere la parola”. Più che la bocciatura, a ben vedere don Milani denuncia nella scuola pubblica l’individualismo, la concezione egoistica della cultura e del sapere come possesso personale, più che come contributo alla vita di tutti.

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