La mafia



Le difficoltà di uno studio sociologico e antropologico della mafia sono molte. Si tratta di organizzazioni segrete, che non mancano di manifestarsi e di farsi perfino pubblicità, ma le cui dinamiche interne sono sottratte allo sguardo pubblico. Naturalmente non sono poche le realtà simili. La differenza è che se in altri casi è possibile ricorrere all’osservazione partecipante, nel caso della mafia infiltrarsi per osservare le organizzazioni dal di dentro non è propriamente una buona idea.

Una fonte preziosa di informazioni è rappresentata dalle indagini della magistratura, per le quali a loro volta sono fondamentali le confessioni dei pentiti di mafia. Quello che sappiamo sull’organizzazione attuale di Cosa Nostra, ad esempio, viene in gran parte della rivelazioni del bandito Tommaso Buscetta. Altri documenti importanti sono i pizzini, foglietti di carta usati dai boss mafiosi per far giungere comunicati e ordini agli affiliati. Interessante anche, come vedremo, è l’analisi di alcune espressioni musicali che celebrano i valori delle cosche mafiose e ne giustificano o perfino esaltano le azioni.

Quando si approcciano a una realtà sociale o culturale, il sociologo e l’antropologo cercano di sospendere il giudizio, di essere avalutativi e di vedere la realtà dall’interno. Nel caso della mafia questo sforzo si scontra con l’evidenza di avere a che fare con forme organizzative e culturali che rappresentano un male oggettivo; forte è il rischio, cercando di comprendere dall’interno, di finire per giustificare ciò che non è giustificabile.

Una definizione di mafia

Benché i giornali parlino ogni giorno di mafia, definire esattamente cosa essa sia e in che modo si differenzi da altre organizzazioni criminali non è facile. Un punto di partenza può essere la legge. L’articolo 416-bis del Codice penale definisce come segue una associazione di tipo mafioso:

L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.

Troviamo qui alcune parole chiave fondamentali per comprendere il fenomeno. Una organizzazione mafiosa è finalizzata all’ottenimento di profitti e vantaggi economici, ma questa è la caratteristica di qualsiasi organizzazione criminale. Che differenza c’è tra un gruppo mafioso e, ad esempio, il gruppo della fortunata serie televisiva La casa di carta, che in modo ingegnoso svaligia una banca? Hanno in comune il perseguimento di un illecito arricchimento, ma non gli altri elementi individuati da quell’articolo di legge. I protagonisti della serie non controllano il territorio, non assoggettano commercianti, artigiani e liberi professionisti e se anche le loro azioni possono suscitare qualche simpatia nell’opinione pubblica, non possono contare su un vero consenso sociale né avere la certezza che le loro attività saranno coperte da un atteggiamento omertoso.

Si può definire mafiosa, dunque, una organizzazione che persegue con mezzi violenti un illecito arricchimento controllando un territorio e contando su un certo consenso sociale. Caratteristica delle organizzazioni mafiose è anche la presenza di un sistema di affiliazione, con dei rituali e un codice comportamentale.

Le mafie italiane

L’origine della mafia è legata, nella stessa tradizione mafiosa, alla leggenda di tre fratelli cavalieri spagnoli, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che nel Quattrocento vennero esiliati sull’isola di Favignana per aver lavato con il sangue l’onore oltraggiato della sorella. Scontata la pena di trent’anni, Osso rimase in Sicilia, dove fondò la mafia, Mastrosso si spostò in Calabria, dando vita alla ‘ndrangheta e Carcagnosso raggiunse Napoli dove gettò le basi della camorra.

Naturalmente non c’è nulla di accertabile storicamente in questa storia, che però fa comprendere come le organizzazioni mafiose italiane, benché spesso in conflitto tra di loro, si riconoscano in una tradizione unitaria.

La mafia siciliana

Nell’immaginario collettivo la mafia siciliana, Cosa nostra, è la mafia tout court.1 Le sue radici affondano nella Sicilia ottocentesca ancora feudale, nella quale un ruolo importante è svolto dai gabellotti, affittuari dei terreni che esercitavano la loro autorità sui contadini con metodi spesso violenti. Il loro ruolo non si limitava allo sfruttamento economico delle terre attraverso il controllo del lavoro dei braccianti. Essi rappresentavano nelle campagne l’unica autorità percepita, in grado di mantenere l’ordine e di governare la vita collettiva.

Questa struttura sociale resiste ai cambiamenti e giunge intatta alle soglie del processo di unificazione. Lo storico britannico John Dickie comincia la sua imponente storia della mafia siciliana con un episodio del 1872. Siamo in un periodo di grande sviluppo del commercio di agrumi, usati dagli inglesi per aromatizzare il tè. Il chirurgo Gaspare Galati ha ereditato un agrumeto organizzato come una avanzata azienda agricola; presto però scopre che il guardiano del fondo ruba limoni e mandarini allo scopo di squalificare l’azienda per poterla acquistare a un prezzo vantaggioso. Il chirurgo licenzia il guardiano, ma l’uomo assunto in sua sostituzione viene ucciso dopo poco tempo. Una serie di lettere anonime lo avvisano che ha sbagliato a licenziare un “uomo d’onore”. Galati si rivolge alla polizia, ma senza ottenere alcun sostegno. Comprende che dietro il guardiano c’è una organizzazione più vasta, che mette capo a una confraternita religiosa. Constatata l’impossibilità di far valere i suoi diritti in un contesto omertoso, il chirurgo è costretto ad abbandonare i suoi beni e a fuggire a Napoli, mandando però un memorandum al ministro dell’Interno sulla sua vicenda. Scrive Dickie:

Racket della protezione, assassinio, dominio del territorio, competizione e collaborazione tra bande, e perfino un embrione di “codice d’onore”: dal memorandum del dottor Galati emergono elementi sufficienti per concludere che molti degli ingredienti centrali del metodo della mafia erano operativi negli agrumeti della Conca d’Oro già nei primi anni Settanta dell’Ottocento. (Dickie 2007, p. 21)

La mafia attuale è il risultato delle profonde trasformazioni che hanno investito la società italiana alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Paese fino ad allora agricolo, nel giro di pochi anni l’Italia si è industrializzata ed ha ottenuto una rapida crescita economica, che ha avuto conseguenze anche sulla vita sociale, con la diffusione del benessere e del consumismo. Legata strettamente alla società rurale siciliana, la mafia si trova ad attraversare un periodo di crisi, anche per via della riforma agraria che spezza i grandi latifondi (1950), oltre che per l’azione repressiva dello Stato (nel ‘56 viene introdotto il confino di polizia). Ma la mafia non scompare. I mafiosi vengono incorporati nel sistema di potere della Democrazia Cristiana (Arlacchi 2007, p. 84), il loro campo d’azione si sposta dalla campagna alla città e le attività si concentrano sull’edilizia, poi trovare poi una lucrosa fonte di guadagni nel traffico di stupefacenti.

Nel 1957 avviene l’incontro tra la mafia siciliana e quella americana, guidata dal boss Lucky Luciano, in seguito al quale la mafia siciliana si dà una organizzazione verticistica, con la creazione di una commissione provinciale e di una commissione regionale, la cupola. Nel 1962 scoppia la cosiddetta prima guerra di mafia, tra i fratelli La Barbera, boss di Palermo centrale, ed altre famiglie, dovuta proprio alla volontà dei La Barbera di escludere le altre famiglie dalla cupola regionale e a divergenze riguardanti la vendita di una partita di eroina. Gli anni Settanta videro l’ascesa del boss corleonese Salvatore (Totò) Riina, che per ottenere il dominio incontrastato scatenò una sanguinosissima guerra contro i nemici interni – la seconda guerra di mafia – che fece circa mille vittime, tra cui il politico e sindacalista Pio La Torre e il generale dell’Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa.

La risposta dello Stato è l’introduzione nel Codice penale dell’articolo 416-bis, che come abbiamo visto definisce l’associazione mafiosa e che consente di impiantare nel 1986, anche grazie alle rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, il cosiddetto maxi-processo, che porta a 346 condanne di mafiosi. La reazione di Cosa Nostra è feroce. A marzo del 1992 viene ucciso Salvo Lima, politico siciliano vicino al senatore (e più volte capo del governo) Giulio Andreotti; il 23 maggio a Capaci, presso Palermo, vengono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre poliziotti della scorta; il 19 luglio in via D’Amelio a Palermo con un’autobomba vengono uccisi Paolo Borsellino e cinque poliziotti. Ma si tratta anche dell’inizio del declino: le due stragi suscitano un’ondata di indignazione nel Paese e spingono lo Stato a intensificare la lotta alla mafia, con un impegno che l’anno seguente porta all’arresto di Totò Riina. Il boss Bernardo Provenzano viene catturato nel 2006. L’arresto a Palermo, nel gennaio del 2023, dell’ultimo grande boss latitante, Matteo Messina Denaro, dà un duplice segnale: da un lato rappresenta una ulteriore vittoria dello Stato sulla mafia, dall’altro fa riflettere il fatto che un superlatitante non avrebbe potuto nascondersi a Palermo senza una vasta rete di connivenza ed omertà.

La ‘ndrangheta

La ‘ndrangheta è la mafia calabrese, considerata una delle organizzazioni criminali più potenti a livello mondiale. Come per la mafia siciliana è difficile individuarne l’esatta origine storica. Si ha notizia certa della presenza di organizzazioni criminali nei decenni seguenti all’Unità, con la documentazione anche dei rituali di affiliazione, anche se vengono spesso usati termini come camorra o picciotteria. Sfuggente, capace di mimetizzarsi, la ‘ndrangheta salta alla ribalta della cronaca solo negli anni Settanta. Dopo essersi alimentata anche grazie agli investimenti statali in Calabria – soprattutto la costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria – la mafia calabrese dà il via ad una crudele stagione di sequestri di persona a scopo di estorsione, con lo scopo di acquisire la liquidità economica necessaria per fare il salto di qualità nei traffici criminali. Approfittando anche della crisi della mafia siciliana, essa entra nel traffico internazionale di droga, non senza però resistenza interne che portano alla prima guerra di ‘ndrangheta, tra il 1974 e il 1977, che vede vincitore il clan De Stefano, sostenitore delle nuove attività criminali. Una seconda guerra scoppia tra il 1985 e il 1991 a causa del conflitto tra le varie cosche (‘ndrine), inasprito dalla spartizione degli enormi guadagni legati al traffico internazionale di stupefacenti; termina dopo circa mille morti con la costituzione di una struttura verticistica simile a quella della mafia siciliana.

La ‘ndrangheta rappresenta oggi una realtà criminale solida, al centro dei traffici internazionali di droga, solidamente insediata anche nelle regioni del Nord Italia. A differenza della mafia siciliana ha sempre evitato lo scontro aperto con lo Stato e attentati eclatanti (pur non mancando di uccidere uomini politici scomodi), in qualche modo mimetizzandosi e penetrando con grande abilità nel mondo imprenditoriale e istituzionale, anche grazie al legame con la massoneria. L’incontro annuale dei vertici dell’organizzazione avviene a settembre al santuario della Madonna di Polsi (San Luca, comune della città metropolitana di Reggio Calabria).

La camorra

Se le origini di Cosa nostra sono legate al mondo rurale siciliano, la camorra è fin dall'inizio un fenomeno criminale cittadino. Alcune tesi la fanno risalire alla Napoli del Cinquecento, governata dagli spagnoli; certo essa era già una realtà consolidata a Napoli ai tempi dell’Unità. Nel 1892 attirarono l’attenzione nazionale i funerali fastosi del camorrista Ciccio Cappuccio, il re di Napoli, figura quasi venerata dal popolo e rispettata anche dalle autorità civili.

La camorra attuale prende forma negli anni Cinquanta del secolo scorso, anche grazie all’apporto proveniente da boss mafiosi siciliani, mandati a Napoli in soggiorno obbligato. Negli anni Settanta emerge la figura di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra Organizzata, forte degli stretti legami con la ‘ndrangheta dei De Stefano; come presto vedremo, cerca di esportare la nuova organizzazione anche in Puglia. La decisione di Cutolo di imporre una tassa sulle sigarette esportate porta a uno scontro con la mafia siciliana che causa centinaia di vittime e termina con la sconfitta di Cutolo. Negli anni Ottanta emerge la figura di Francesco Schiavone, detto Sandokan, capo del clan dei Casalesi (da Casal di Principe), che si dà una struttura verticistica simile a quella della mafia siciliana e conquista l’egemonia su tutti i clan della Campania. Dopo lo smantellamento dell’organizzazione, grazie a diversi membri anche importanti che sono diventati collaboratori di giustizia, la camorra si è disseminata in una moltitudine di clan, spesso in sanguinoso contrasto tra loro. Nel 2004-2005 la faida di Scampia, scontro tra il clan Di Lauro e i cosiddetti Scissionisti, ha fatto più di settantaquattro morti, tra cui due innocenti uccisi a causa di uno scambio di persona. Una seconda faida è avvenuta, sempre a Scampia, all’interno del clan degli Scissionisti, tra il 2012 e il 2014.

La Sacra Corona Unita

Il 5 gennaio del 1979 il boss della camorra Renato Cutolo tiene all’hotel Florio di Foggia un incontro al quale invita diversi membri della malavita pugliese, con lo scopo di affiliarli e iniziarli alla Nuova Camorra Organizzata; in seguito viene organizzato a Galatina un secondo incontro, al fine di diffondere l’organizzazione in Salento. Nelle intenzioni di Cutolo la nuova organizzazione avrebbe dovuto riscuotere una tangente su tutti gli affari della mafia pugliese, legati in particolare al contrabbando; questa sudditanza tuttavia suscita presto la ribellione dei boss pugliesi, favorita anche dall’arresto di Cutolo.

Nel 1983 nasce nel carcere di Bari, per iniziativa del boss Pino Rogoli, la Sacra Corona Unita, che nelle intenzioni doveva essere una mafia pugliese autonoma, anche se fortemente legata alla ‘ndrangheta. Ma l’organizzazione non mostra la stessa forza e capacità organizzativa delle altre organizzazioni mafiose e si indebolisce anche per l’alto numero di pentiti, che consentono allo Stato di intervenire in modo efficace, anche grazie al fatto che a Bari “non è mai esistita una sottocultura omertosa e mafiosa”, come osserva l’ex questore Piernicola Silvis (Silvis, 2022, p. 117).

La quarta mafia foggiana

I mafiosi foggiani mostrano presto insofferenza sia verso la nuova camorra organizzata di Cutolo che verso la Sacra Corona Unita guidata dai mafiosi salentini. Guidati dai boss Giosuè Rizzi e Rocco Moretti, affermano la propria autonomia nel maggio del 1986 con un sanguinoso attacco in un locale del centro storico di Foggia, il circolo Bacardi. Nell’attentato restano uccise quattro persone, mafiosi della Sacra Corona Unita.

La nuova mafia foggiana, denominata società foggiana o quarta mafia, si distingue per la ferocia e il controllo capillare del territorio. I suoi campi d’azione sono il racket delle estorsioni e il controllo del mondo economico e politico. Una particolarità della mafia foggiana è il suo impatto sulla vita cittadina. Come scrive il procuratore Francesca Pirrelli,

A Palermo, a Reggio Calabria, le organizzazioni criminali controllano la microcriminalità impedendole di trasformare la vita della gente in un inferno quotidiano. Perché questo garantisce una convivenza pacifica e il consenso. Bene, qui è il contrario. Criminalità organizzata e microcriminalità coesistono e condividono interessi. La giornata di un foggiano è segnata quotidianamente da furti d’auto, furti in appartamento, rapine, estorsioni, spesso con uso sconsiderato di esplosivi ad alto potenziale. Non c’è nulla della vita di ciascuno che venga risparmiato. L’integrità fisica e patrimoniale, il libero esercizio dell’attività commerciale o imprenditoriale (Bonini, Foschini, 2019, p. 181)

I modelli organizzativi

La mafia siciliana si caratterizza per una rigorosa organizzazione gerarchica, quasi militare. Gli uomini d’onore, per così dire i soldati semplici della mafia, sono organizzati in gruppi di dieci e guidati dai capidecina. Questi a loro volta dipendono dal boss, il capo della famiglia mafiosa, che può essere affiancato da consiglieri e che viene eletto. Più famiglie vicine sono rappresentate da un capomandamento che entra a far parte della commissione provinciale dell’organizzazione. A loro volta le commissioni provinciali scelgono i rappresentanti da mandare presso la cupola, il vertice dell’organizzazione mafiosa, con competenze sull’intera regione.

Anche la ‘ndrangheta ha una struttura gerarchica, con una serie di livelli, chiamati dote. La cellula di base è la ‘ndrina, una organizzazione per lo più famigliare che ha il controllo su una porzione limitata di territorio, come un paese o un quartiere. Più ‘ndrine formano una locale, una struttura di coordinamento che ha almeno 49 membri, e la cui creazione è stabilita dalla locale di San Luca. Ogni locale è guidata da tre persone: il capobastone, che ne è il responsabile; il contabile, che si occupa dell’aspetto finanziario, ossia della gestione dei proventi delle attività criminali; il criminine, che si occupa delle attività propriamente criminali. La locale a sua volta ha due livelli, la società minore e la società maggiore, che esiste solo in alcune locali. All’interno di questi livelli esiste una attenta distinzione di ruoli gerarchici, che comprende nella società minore il picciotto, il camorrista e lo sgarro; in quella maggiore vi sono i livelli ulteriori del santista, il vangelo, il quartino e il padrino. Ogni livello ha un suo santo protettore e tutta la progressione criminale è scandita da precisi rituali; man mano che si procede verso l’alto si stringono inoltre legami con la massoneria. L’organizzazione della ‘ndrangheta è rappresentata con la figurazione dell’albero della scienza, una quercia il cui fusto rappresenta il capobastone, i rami i diversi membri, mentre le foglie che cadono sono gli infami, coloro che meritano di morire per aver tradito l’organizzazione.

La camorra ha invece un modello organizzativo caotico. Esistono una molteplicità di clan, senza ruoli predefiniti e soprattutto senza strutture sovraordinate che siano anche in grado di risolvere i conflitti. Nel mondo camorristico la leadership è dunque esposta maggiormente all’assalto di gruppi emergenti.

Il carattere interclassista delle mafie

Le organizzazioni mafiose hanno un carattere transclassista. Se la manovalanza proviene dagli strati più svantaggiati della società – e la presenza di un ampio strato sociale in stato di povertà o addirittura miseria si rivela dunque fondamentale per reclutare affiliati addetti alle azioni più violente – le organizzazioni mafiose annoverano ai vertici membri della borghesia e si avvalgono del servizio di professionisti del mondo del diritto e della finanza. Sarebbe un errore interpretativo dunque scorgere nelle organizzazioni mafiose una forma di lotta di classe o comunque una rivalsa sociale delle classi più svantaggiate. È vero tuttavia che tali organizzazioni possono offrire ad alcuni soggetti la possibilità di ottenere attraverso attività criminali una condizione economica e un prestigio sociale apprezzabili; si tratta, in altri termini, di organizzazioni che consentono una certa mobilità sociale a chi si dimostri dotato di spregiudicatezza ed abilità criminale.

I riti di affiliazione

Nelle organizzazioni mafiose si entra attraverso riti di affiliazione che hanno elementi in comune con quelli della massoneria. Nella mafia siciliana si tratta del rito della punciuta. Il candidato viene presentato da un padrino agli “uomini d’onore” della famiglia. Con uno spillo gli si punge il polpastrello dell’indice. Il sangue cola su un santino, che poi viene bruciato. Il candidato quindi giura: “Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento”. Nella mafia siciliana il rito avviene una sola volta, mentre nella ‘ndrangheta sono previsti riti diversi a seconda dei vari gradi dell’organizzazione cui si accede. Come abbiamo visto, la ‘ndrangheta ha una organizzazione fortemente gerarchica e prevede diversi gradi cui si accede con appositi rituali. Il livello ultimo è la Santa, una sorta di cupola della ‘ndrangheta. Per accedere al grado di santista occorre sottoporsi a un apposito rituale, durante il quale si invocano le figure di Garibaldi, Mazzini e La Marmora. Nella camorra invece l’importanza dei riti di iniziazione si è andata perdendo nel tempo, anche se Raffaele Cutolo ha elaborato un complesso sistema rituale per l’iniziazione alla sua Nuova Camorra Organizzata (Gavini, s.d.).

Il ruolo di questi rituali non è diverso da quello dei riti di passaggio studiati dagli antropologi. Con il giuramento, l’affiliato entra a fare parte di una organizzazione che prenderà il controllo totale sulla propria identità. Una volta avvenuto, la sua vita non sarà più la stessa. La solennità e la sacralità del rito trasmettono all’affiliato un messaggio fondamentale: la mafia non è una organizzazione qualsiasi, dalla quale si possa uscire di propria volontà, ma una comunità che non ammette defezioni e tradimenti. Il rituale inoltre serve a distinguere un dentro e un fuori, separando nettamente i membri dell’organizzazione, gli iniziati, dai semplici fiancheggiatori.

Mafia e contesto sociale

Le mafie possono prosperare in qualsiasi contesto, ed ormai sono radicate anche in regioni del Centro-Nord Italia, nelle quali praticano i loro affari senza dare nell’occhio, non mancando in qualche caso anche di infiltrarsi nelle istituzioni. Vi sono contesti sociali però particolarmente favorevoli allo sviluppo e alla persistenza delle mafie. In alcuni casi si tratta di una vero e proprio sostegno attivo. Un esempio tra tutti: nell’estate del 2015 una folla ha cercato di impedire l’arresto del latitante napoletano Luigi Cuccaro, capo di uno dei principali clan della camorra. Le foto dell’arresto mostrano il boss che manda un bacio ai suoi sostenitori prima di entrare nell’auto dei carabinieri. In alcuni contesti i boss mafiosi sono considerati quasi come eroi popolari e godono di un sostegno più o meno incondizionato.

In altri casi il sostegno è indiretto. Le organizzazioni mafiose possono contate, più che sull’adesione entusiastica, sulla distrazione. La mafia può operare indisturbata i propri traffici e, se necessario, compiere i propri agguati con la certezza che nessuno denuncerà quello che ha visto. È il fenomeno dell’omertà, senza il quale le mafie difficilmente potrebbero sopravvivere. Il termine deriva da umiltà ed indica un atteggiamento di silenzio, di copertura e di mancata denuncia dei crimini mafiosi. Se è vero che buona parte delle azioni della mafia – ad esempio quelle finanziarie – avvengono nel buio, è anche vero che molte altre, compresi fatti di sangue, avvengono alla luce del sole ed alla presenza di testimoni; senza un atteggiamento omertoso sarebbe piuttosto semplice individuare i responsabili dei crimini ed assicurarli alla giustizia. La paura è senz’altro uno degli elementi costitutivi dell’omertà. In un contesto di sfiducia nello Stato, la minaccia della vendetta mafiosa appare più realistica della protezione statale. Ma la paura da sola non basta a giustificare la complicità di una intera comunità. Molto contribuiscono una visione del mondo individualistica, una certa indifferenza a quello che accade nella comunità e la tacita accettazione della legge del più forte in campo sociale. I contesti nei quali prosperano le organizzazioni mafiose sono caratterizzati da una società civile frammentata, incapace di individuare i propri problemi e di affrontarli in modo compatto, bloccata dall’individualismo e dalla sfiducia.

Mafia e religiosità

Nelle città siciliane le festività religiose, in particolare quelle legate alla Madonna, sono un elemento centrale dell’identità ed avvengono con enorme affluenza popolare. Tali sono, ad esempio, il Varo dell’Assunta di Messina e la festa di Sant’Agata a Catania. Si tratta di feste che richiedono una organizzazione lunga e complessa nella quale significativa è l’infiltrazione delle famiglie mafiose. Il prestigio particolare dell’evento fa sì che esso sia sfruttato dai mafiosi per mostrare alla città intera il proprio potere e la presenza per così dire istituzionale, accanto al potere politico e a quello religioso. Dinamiche simili si verificano in Campania; a Napoli, ad esempio, la Festa dei Gigli è spesso usata dai boss della camorra per enfatizzare il proprio ruolo pubblico. Nel 2011 due boss parteciparono alla festa a bordo di un’auto di lusso, acclamati con l’accompagnamento della colonna sonora del film Il Padrino. Frequente è anche la pratica dell’inchino: la statua portata in processione viene fermata e fatta inchinare in segno di rispetto davanti alla casa del boss locale. Come abbiamo visto, in Calabria il santuario della Madonna di Polsi è il luogo in cui si tiene ogni anno il meeting dei boss della ‘ndrangheta, in occasione della festa della Madonna.

Tutto ciò induce a riflettere sui rapporti tra mafia e Chiesa cattolica, o più in generale tra mafia e cattolicesimo. Alcuni autori scorgono nella mafia la presenza di aspetti culturali del cattolicesimo, messi al servizio di una visione del mondo criminale. Scrive Augusto Cavadi:

È noto che la mafia si è configurata nell’ambito di una cultura “sacrale”, più precisamente “cattolica”, dalla quale ha mutuato (come risulta anche da rivelazioni recenti di affiliati) simboli, linguaggi, valori: il giuramento, l’obbedienza agli anziani, la cura della famiglia, la fedeltà, l’onore, il rispetto della castità delle donne… sono tutti elementi tipici di una mentalità etico-religiosa che, di fatto, nell’Italia meridionale è stata informata dalla versione tridentina del cattolicesimo. (Cavadi 2006, p. 95)

Al di là di questi aspetti culturali si può riflettere su una circostanza storica. Il cattolicesimo è stato un elemento centrale dell’identità meridionale fino all’Unità d’Italia. Come è noto, il processo unitario è stato apertamente contrastato dalla Chiesa cattolica. Un contrasto che è avvenuto soprattutto aizzando contro il nuovo Stato le plebi, disorientate dal crollo del regno borbonico e esasperate da provvedimenti come la leva obbligatoria. Questo malessere, orientato e strumentalizzato, si è espresso nel brigantaggio, ma probabilmente ha influito anche nella costruzione dell’identità delle mafie come organizzazioni politiche radicate nella cultura religiosa territorio ed in opposizione al potere politico dello Stato.

La musica della mafia

Tra il 2000 e il 2005 vengono pubblicati in Germania con il titolo La musica della mafia tre cd che raccolgono le canzoni della ‘ndrangheta. Si tratta della musica in dialetto calabrese che tradizionalmente veniva e viene venduta sulla bancarelle, in occasione delle principali festività religiose locali. I canti offrono uno spaccato del mondo mafioso visto dall’interno, con i suoi presunti valori, primo fra tutti l’onore, le sue regole, la condanna senza appello per chi si macchia di infamità. Ma non manca una canzone che racconta e celebra l’omicidio del generale Dalla Chiesa, colpevole di essersi messo contro una forza più grande di lui.

Nel Napoletano la celebrazione della mafia non è infrequente nella musica neomelodica. Snobbato nelle regioni del centro-nord, questo genere musicale ha un successo enorme presso le classi popolari delle regioni meridionali. I concerti di cantanti neomelodici possono avere migliaia di spettatori e le vendite, a Napoli e in altre città meridionali, competono con quelle di grandi artisti internazionali. Al tempo stesso i cantanti neomelodici, compresi i più famosi, non si sottraggono all'accompagnamento di cerimonie quali matrimoni e compleanni; e può succedere che si tratti di cerimonie di famiglie appartenenti a clan mafiosi. Ma il rapporto tra cantanti neomelodici e ambienti mafiosi va ben al di là di questo contributo per così dire professionale. Diversi cantanti neomelodici sono organici alle mafie: hanno rapporti stretti con mafiosi, di cui in qualche caso esaltano le imprese nelle loro canzoni, e può accadere perfino che loro stessi siano implicati in azioni criminose.

Significativo è il caso della canzone 'O capoclan del neomelodico Nello Liberti, che si ritiene commissionata dal boss di Ercolano Vincenzo Oliviero. L'analisi del testo della canzone può essere utile per apprezzare il particolare contributo di questa forma musicale alla creazione di una cultura della mafia. Ecco alcuni passi (tradotti in italiano):

Il capoclan è un uomo serio
non è vero che è cattivo
ma ragionare con il cuore non si può.
Il capoclan no, non sbaglia,
perché per la famiglia lui è il capo
e deve saper comandare.
[....]
Da piccolo non ha potuto mai studiare
per sfortuna se ne andò a lavorare
si sacrificava per mangiare la sera
volle la famiglia nella miseria.
Questa cosa non l'ha potuta sopportare
se ha sbagliato è stato per necessità
certo questo l'ha voluto Dio
se ora è un uomo vero in mezzo alla strada.
E se ha deciso così il cuore a chi lo deve dare?
È capo e sa vivere e noi lo dobbiamo rispettare.

La carriera del mafioso è giustificata con le condizioni difficili nelle quali si è trovato a vivere, come se non esistesse alcuna alternativa alla vita criminale. Che effettivamente criminale non è: il mafioso fa cose che la legge condanna, ma che sono giuste, perfino doverose nell'ottica del bene della sua famiglia, che è il valore supremo. Il capoclan diventa un modello umano, l'esempio di un uomo che non si è lasciato travolgere dalla circostanze, ma ha preso in mano il suo destino.

Interpretazioni della mafia

La mafia come fenomeno culturale

Le prime letture della mafia, considerate superate dal punto di vista scientifico ma ancora operanti nell’opinione pubblica, vedono in essa l’espressione culturale di una società arretrata come quella meridionale. Se la mafia esiste è perché i meridionali sono fatti in un certo modo: non hanno, anche per cause storiche, fiducia nello Stato, hanno uno spiccato senso dell’onore e della dignità personale che li porta alla vendetta personale e non riescono a percepire la comunità come un valore. Su quest’ultimo punto ha avuto grande influenza la tesi del familismo amorale, elaborata dal sociologo statunitense Edward C. Banfield nel 1958 (The Moral Basis of a Backward Society). Studiando un paesino della Basilicata, Banfield era giunto alla conclusione che l’arretratezza di quel paesino era dovuto a un particolare tratto antropologico: l’incapacità di agire considerando non solo gli interessi della propria famiglia, ma quelli della più ampia comunità. Henner Hess, il più importante rappresentante di questa corrente interpretativa, ha visto nella mafia l’espressione di una doppia morale dovuto al dominio spagnolo della Sicilia. La presenza di un governo oppressivo avrebbe spinto il popolo siciliano a giustificare l’opposizione anche violenta al potere ed a cercare forme di auto-organizzazione di cui la mafia sarebbe l’espressione.

Il limite di queste letture è che, ancorando la mafia a una società agricola, caratterizzata dal latifondo, non riescono a rendere conto della sua sopravvivenza quando quella società scompare. La mafia, come ogni gruppo sociale, ha una sua cultura, e vi sono legami significativi tra questa cultura e la cultura dei luoghi in cui si sviluppa, ma se da un lato è rischioso ridurre la cultura meridionale alla mafia, dall’altro è fuorviante considerarla solo espressione antropologica, trascurando gli aspetti economici e politici.

Danilo Dolci: il sistema mafioso-clientelare

Sociologo sia pure non in senso accademico (ha abbandonato gli studi di architettura per dedicarsi alla sua attività sociale), Danilo Dolci ha dedicato tutta la sua vita, a partire dal 1952, allo sviluppo della Sicilia nord-occidentale, mettendo a punto un particolare metodo, la maieutica reciproca, sul quale ci soffermeremo trattando della lotta alla mafia. La riflessione di Dolci, che si sviluppa sempre in stretta relazione con la sua prassi educativa e politica dal basso, è centrata sulla differenza tra potere e dominio. Giunto nel ‘52 a Trappeto, poverissimo borgo di pescatori, Dolci scopre una comunità nella quale perfino la morte per fame dei bambini è accettata con rassegnazione. Dal confronto con la gente del borgo, documentato dal volume Fare presto (e bene) perché si muore (1956), emerge una situazione di radicale impotenza, di incapacità di pensare qualsiasi cambiamento sociale. Per Dolci è evidente la necessità di una conquista del potere intesa positivamente come possibilità di agire. Se questo è il potere, la sua degenerazione è il dominio, una situazione nella quale le possibilità vitali sono soltanto di alcuni, e crescono sulla e grazie alla impotenza generalizzata. Per Dolci questa è la realtà nella quale si inserisce l’azione della mafia, ma non caratterizza solo la Sicilia; la nostra società in generale gli appare viziata dal dominio e bisognosa di una conquista del potere da parte delle comunità.

Sul piano delle relazioni sociali il dominio funziona in Sicilia, ma non solo, grazie ad una particolare struttura organizzativa che Dolci chiama sistema mafioso-clientelare. Un gruppo di potere ha un leader, ma è strutturato in modo tale che sono possibili rapporti aperti tra tutti i suoi membri. In una situazione di dominio la società è invece atomizzata. La comunità non è in grado di organizzarsi per affrontare i problemi: in una visione individualistica esistono solo problemi individuali e soluzioni individuali. Si inserisce qui quella politica che fa tutt’uno con la mafia. Compito della buona politica è quello di favorire la fiducia sistemica, ossia la convinzione che i propri diritti saranno riconosciuti in una società giusta. Il sistema clientelare-mafioso invece sostituisce la fiducia sistemica con la fiducia posizionale: ognuno deve sapere che è possibile ottenere i propri diritti, o magari vantaggi personali cui non si ha diritto, se ci si mette al servizio di un rappresentante politico, che a sua volta sarà al servizio della mafia. In questo modo gli individui perseguono i propri scopi personali, consegnando la comunità ad una organizzazione politica criminale.

Pino Arlacchi: la mafia imprenditrice

Ne La mafia imprenditrice (1983) il sociologo Pino Arlacchi, tra i creatori della Direzione Investigativa Antimafia (DIA), legge le trasformazioni delle mafie alla luce del concetto di mafioso imprenditore. Il sociologo è consapevole che associare la figura del mafioso a quella dell’imprenditore può suscitare perplessità, perché imprenditore è colui che introduce qualche forma di innovazione in ambito economico. Ma c’è innovazione anche nell’economia mafiosa, e consiste appunto nel metodo mafioso. Scrive Arlacchi:

I mafiosi imprenditori hanno, infatti, introdotto innovazioni nella organizzazione delle loro imprese. La più importante di queste innovazioni consiste proprio nel trasferimento del metodo mafioso nell’organizzazione aziendale del lavoro e nella conduzione degli affari esterni dell’impresa. L’incorporazione del metodo mafioso nella produzione di merci e servizi ha permesso e permette a tutta una categoria di imprese di godere – come ogni impresa che innova – di un profitto monopolistico precluso alle altre unità economiche. (Arlacchi, 1983, p. 100)

Studiare la mafia per Arlacchi significa dunque studiare l’organizzazione dell’impresa mafiosa. Il successo dell’impresa mafiosa consiste in primo luogo nella possibilità di scoraggiare, con metodi violenza, la concorrenza, assicurandosi così un monopolio nel territorio, in particolare nel campo dell’edilizia. In secondo luogo, una impresa mafiosa ha vantaggi che le vengono dal mancato rispetto delle regole relative al pagamento dei contributi previdenziali e assicurativi dei lavoratori; il carattere particolare dell’impresa scoraggia sia i controlli degli organi addetti che le proteste dei lavoratori. Infine, una impresa mafiosa ha una enorme disponibilità di denaro, che le proviene dai traffici illeciti, e anche questa circostanza le dà un vantaggio sul mercato, rendendola più competitiva delle altre imprese, che sono costrette a ricorrere in caso di necessità a finanziamenti esterni. Queste imprese mafiose, così ramificate e inserite nel tessuto economico, reggono su una struttura sociale ancora tradizionale: alla base c’è la creazione di reti famigliari o amicali, le uniche che consentono quella sicurezza di relazioni senza la quale l’impresa mafiosa rischia di essere scoperta e smantellata.

Davide Gambetta: la mafia come industria della protezione privata

Il sociologo Davide Gambetta ha proposto una interpretazione della mafia come industria della protezione privata che ha avuto grande successo ed è stata applicata anche all’analisi di organizzazioni mafiose di altre parti del mondo. Per Gambetta le organizzazioni mafiose agiscono come imprese che offrono un bene particolare: la protezione in una situazione di mancanza di fiducia. In un contesto sociale caratterizzato da una generale sfiducia qualsiasi interazione economica appare rischiosa. In una tale situazione è possibile astenersi dalla interazione, ad esempio dal fare un acquisto, o intraprenderla; ma se la sfiducia è diffusa, è probabile che prevalga la prima scelta, rendendo dunque limitato il mercato. Qui interviene la figura del mafioso, che si differenzia dal criminale comune perché “agisce in qualità di garante di determinate transazioni” (Gambetta, 1989-1990, p. 321; corsivo nel testo). Il mafioso garantisce che nello scambio nessuno truffi l’altro e che la transazione possa avvenire in modo corretto. Questo favorisce in qualche modo lo sviluppo del mercato ma, osserva Gambetta, si tratta di un mercato comunque limitato, senza l’ampiezza possibile in una condizione di libero mercato. Poiché la sua funzione principale è garantire gli accordi, la mafia si sviluppa in un contesto economico caratterizzato appunto da accordi tra attori economici, vale a dire l’esatto opposto di un sistema di libera concorrenza.

L’importanza del libero mercato, nota Gambetta, viene in genere enfatizzata dai conservatori; in alcuni contesti tuttavia esso può avere una funzione progressista, eliminando privilegi che nascono da sistemi di appartenenza. “Non escludo – scrive – che perseguire in forma generalizzata politiche di libero mercato per certi beni possa essere impossibile, indesiderabile o controproducente; eppure credo che in parecchi mercati locali nel Mezzogiorno possa avere ancor oggi un valore rivoluzionario” (ivi, p. 325). Di qui la conclusione che è nel titolo stesso di un suo saggio: se è vero che la mafia elimina la concorrenza – perché il sistema di alleanze e di garanzie finisce per favorire alcuni a discapito di altri – è anche vero il contrario, ossia che un mercato libero, nel quale ognuno possa affermarsi in virtù della sua abilità e della qualità del suo lavoro, può porre le basi per la fine del fenomeno mafioso.

Marco Santoro: la mafia come sistema politico

Alternativa alla lettura della mafia come espressione culturale e come impresa economica è quella della mafia come sistema politico alternativo allo Stato. È questa la lettura di Marco Santoro, sociologo dell’Università di Bologna, in Mafia Politics (2022). Santoro critica le interpretazioni economiche della mafia, come quella di Gambetta, accusandole soprattutto di ridurre la complessità del fenomeno mafioso ad una sola delle sue componenti. Se i mafiosi offrono protezione, è anche vero che essi sono in grado di creare le condizioni che rendono necessaria la protezione stessa; e questa azione non è più economica, ma politica. Per Santoro la mafia è un fenomeno complesso, che include aspetti religiosi, morali, economici, perfino sessuali, ma ritiene che l’aspetto centrale sia quello politico. Se identifichiamo la politica con l’attività dello Stato, evidentemente una simile lettura è impossibile; al più potremo considerare la mafia come anti-Stato. Ma lo Stato, afferma Santoro, è solo una delle organizzazioni politiche possibili. Le società possono organizzarsi in molti modi diversi e alternativi rispetto allo Stato, come mostrano antropologi anarchici come David Graeber. La mafia dunque può essere considerata una sorta di organizzazione politica popolare, alternativa a quella dominante. Se lo Stato attuale è caratterizzato sul piano economico dal capitalismo e sul piano sociale dal dominio della classe borghese, nella mafia Santoro scorge la persistenza di un ethos premoderno. La modernità ha combattuto le gerarchie sociali promuovendo l’ascesa dei ceti subalterni, nella mafia si è invece perseguita l’ascesa sociale senza contestare la presenza di una gerarchia sociale. E questa ascesa viene ottenuta con un’etica che è affine più all’etica guerriera delle classi aristocratiche che all’etica moderna della partecipazione politica: “L’etica guerriera delle vecchie classi aristocratiche (in Sicilia, la cultura baronale; in Giappone l’ethos dei samurai) è l’orizzonte culturale dei mafiosi, non lo spirito del capitalismo e nemmeno una cultura civica borghese (Santoro, 2022, p. 3; trad. mia).

Non si tratta, puntualizza Santoro, di pensare la mafia come altro Stato, ma di essere consapevoli che lo Stato non esaurisce la sfera del politico. Santoro semplifica la sua tesi con uno schema: il grande insieme della politica comprende due insiemi, lo Stato e la mafia, che si intersecano parzialmente. La particolarità della mafia è che, mentre gli antropologi hanno documentato da tempo l’esistenza di società senza Stato, la mafia si presenta dove lo Stato già esiste. La mafia, conclude Santoro, “è ‘l’arte di non essere lo Stato”, pur facendo uso delle sue risorse e forme e, ovviamente, cambiando il loro significato” (ivi, p. 237; trad. mia).

L’antimafia

L’azione di contrasto alla mafia ha due livelli: uno istituzionale e uno sociale e culturale. Quello istituzionale a sua volta ha due aspetti. Uno è il contrasto attraverso l’azione della polizia e della magistratura, che dopo le stragi del 1992 è diventato particolarmente efficace, portando all’arresto dei principali boss mafiosi. L’altro è la realizzazione di una buona politica a livello soprattutto locale, la costituzione di una classe politica permeata dai valori dell’antimafia, integerrima e preoccupata del bene comune. Da questo punto di vista c’è ancora molto da fare. Lo scioglimento per mafia di diversi consigli comunali – non solo di paesi, ma anche di città di media grandezza come Foggia – mostra quanto la politica, a livello locale e, almeno in parte, anche a livello nazionale, non sia ancora libera dai legami con la mafia.

A livello sociale e culturale l’azione antimafia agisce cercando di costruire una società civile sana, combattendo la sfiducia e l’individualismo. È questo il lavoro portato avanti per decenni, a partire dalla prima metà degli anni Cinquanta, dal citato Danilo Dolci. Il suo metodo è stato quello della maieutica reciproca, una pratica dialogica che aveva lo scopo di costituire una comunità in grado di analizzare i propri problemi e di affrontarli grazie alla pressione nonviolenta. Da una delle riunioni di maieutica reciproca è nata l’idea di realizzare una diga sul fiume Jato, la cui realizzazione è stata autorizzata dalla Cassa per il Mezzogiorno dopo un prolungato digiuno del sociologo. Negli anni Sessanta raccoglie testimonianze per denunciare il rapporto tra mafia e politica, giungendo ad accusare personaggi di spicco della politica nazionale, ma esce sconfitto da un processo per diffamazione.2

Peppino Impastato invece ha lavorato per dissacrare la mafia, attraverso lo strumento della radio. Le sue trasmissioni su Radio Aut, fondata a Terrasini (Palermo) nel 1977, mettevano in ridicolo il boss mafioso locale, Tano Badalamenti, denunciando anche i rapporti con i politici locali. Peppino Impastato è stato assassinato il 9 maggio 1978.

A Napoli la camorra ha ucciso don Peppe Diana, impegnato nella denuncia delle attività della mafia e nella costruzione di una alternativa attraverso la sua attività di parroco presso la parrocchia San Nicola da Bari a Casal di Principe. Era il periodo della guerra dei Casalesi e don Peppe Diana era colpevole, tra l’altro, di aver diffuso nelle parrocchie un documento di dura condanna della camorra dal titolo Per amore del mio popolo non tacerò. Il suo assassinio avvenne in chiesa, il 19 marzo 1994, mentre si apprestava a celebrare la messa.

Dall’attività di un altro sacerdote, don Luigi Ciotti, è nata nel 1995 Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, un coordinamento che unisce centinaia di associazioni, gruppi, scuole in Italia e nel mondo con lo scopo di sensibilizzare la società civile. Un importante risultato è stato raggiunto con la legge 7 marzo 1996, n. 109, fortemente voluta dall’associazione, che stabilisce l’uso sociale dei beni sottratti alle mafie. 

Bibliografia essenziale

Arlacchi P., La mafia imprenditrice, il Saggiatore, Milano 2007.

Bonini C., Foschini G., Ti mangio il cuore. Nell’abisso del Gargano. Una storia feroce, Feltrinelli, Milano

Cavadi A., Per una pedagogia antimafia, in Id. (ed), A scuola di antimafia, DG Editore, Trapani.

Dickie J., Cosa nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Roma-Bari 2007.

Gambetta D., La mafia elimina la concorrenza. Ma la concorrenza può eliminare la mafia?, in “Meridiana”, n.7/8, settembre 1989-gennaio 1990.

Gambetta D., La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1992.

Gavini D., Riti di affiliazione, in Culti e mafie, url: http://cultiemafie.uniroma2.it/riti-di-affiliazione/

Hess H., Mafia, Laterza, Bari 1973.

Luca E., Le interpretazioni della mafia e le scienze sociali, in “Democrazia & Sicurezza”, anno II, n. 2, 2013.

Paliotti V., Storia della camorra. Dal Cinquecento ai nostri giorni, Newton Compton, Roma 2002.

Saviano R., Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006.

Silvis P., Capire la mafia, LUISS, Milano 2022.

Sitografia

Commissione antimafia, url: https://www.parlamento.it/antimafia

Culti e mafie, url: http://cultiemafie.uniroma2.it

Direzione Investigativa Antimafia, url: https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it

Libera, url: https://www.libera.it

Mafie sotto casa*, url: https://mafiesottocasa.com

Wikimafia, url: https://www.wikimafia.it


1 Nella ricostruzione sintetica della storie delle mafie seguo soprattutto Silvis, 2022.
2 Nel 2016 è stata chiesta dall’avvocato Fabio Repici e dal giornalista Alfio Caruso la revisione del processo, poiché le rivelazioni di alcuni pentiti sembrano confermare le accuse di Dolci.


Testo di Antonio Vigilante.  Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Italia
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